Articoli , pensieri e riflessioni sul celibato sacerdotale (o celibato ecclesiastico) e sulla castità come consiglio evangelico.
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mercoledì 29 maggio 2013

Aspetti psicologici del celibato ecclesiastico (prof. Manfred Lütz)

 Prof. Manfred Lütz, Consultore della Congregazione per il Clero

  Mi è stato chiesto di trattare qui alcuni aspetti psicologici del sacerdozio e in particolare del celibato. Ora io non sono uno psicologo specialista del celibato. Mi sembra anche che ci sia poca letteratura rilevante su questo tema. In primo piano nel dibattito pubblico si danno spesso alcuni clichées del tutto logori e inverificati, sulla forma di vita celibataria, e certe reazioni ecclesiastiche di atteggiamento difensivo. Allorchè, alcuni anni fa, in una trasmissione televisiva, dovetti difendere il celibato cercai prima presso dei Rettori di Seminari un po’ di letteratura circa buoni esempi di celibato ben riuscito attraverso i secoli. C’erano solo dei dati assai sparuti. Così anche qui posso parlare solo di alcuni aspetti del tema e per il resto evidenziare il fatto che abbiamo bisogno di più letteratura nutrita di esperienza su questo tema. Affronterò questo tema in modo ampio e toccherò non solamente aspetti psicologici nella vita di celibato stessa, ma considererò qui anche i dibattiti sul celibato dal punto di vista psicologico, e specialmente socio-psicologico.
Indubbiamente, sotto l’aspetto socio-psicologico, il celibato è una provocazione. In un mondo che non crede più propriamente in una vita dopo la morte, questa forma di vita è una costante protesta contro l’universale superficialità. Il celibato è il messaggio continuamente vissuto che l’aldiquà con le sue gioie e i suoi dolori non è tutto. Ci sono persone che al sentire questo diventano davvero furiose. In effetti qui viene messa massicciamente in discussione la loro concezione di vita. E non semplicemente da un testo scritto o da un dialogo buttato là, bensì da una decisione di vita davanti alla quale non ci si può tappare gli occhi. Il celibato non è una confessione di fede fatta con le labbra, ma una confessione di fede fatta con la vita. Senza dubbio, se con la morte tutto fosse finito, allora il celibato sarebbe un’idiozia. Perché rinunciare all’intimità dell’amore di una donna, perché rinunciare all’emozionante incontro con i propri bambini, perché rinunciare alla sessualità felicemente vissuta? Perché ci si dovrebbe privare della fecondità corporale in questa vita? Solo se la vita terrena è un frammento, che dovrà trovare nell’eternità il suo compimento, solo allora questa forma di vita, il celibato, può gettare una luce chiara sulla vita ancor di là da venire; solo allora si annuncia ad alta voce il messaggio di una vita in pienezza, che la nostalgia degli uomini di ogni epoca ha desiderato ardentemente, ha intuìto, ma la cui realtà solo con l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo e specialmente con la sua morte e la sua mirabile resurrezione è divenuta manifesta a tutti gli uomini. Per la nostra società il celibato risulta addirittura come un “pungolo nella carne”, che ci ricorda sempre nuovamente, a tempo debito e indebito, che le incessanti preoccupazioni e gli incalzanti problemi della vita terrena non sono tutto.
  Il celibato è una forma di vita non borghese, che relativizza pieno di humor l’ordine borghese apparentemente così sicuro di sé. Gli avversari del celibato sollecitano non di rado dicendo che la verginità per il regno dei cieli non è certo da mettere in discussione se si tratta di un monastero lontano dal mondo. Ma se si tratta delle comunità parrocchiali, se si è “nel mondo”, allora si deve lasciare che fungano da sacerdoti dei “viri probati” (uomini sposati che hanno dato buona prova di sé). Sono spesso quelle stesse persone che vorrebbero lasciar cadere tutte le distinzioni tra profano e sacro, anche la distinzione tra clero e laici, tra temi mondani ed ecclesiali. Certamente la fede nel fatto che Dio è divenuto uomo è una massiccia irruzione della sacralità nella profanità. I primi cristiani rimarcavano assai chiaramente che gli antichi concetti pagani di sacro e profano non potevano venir semplicemente trasposti nel cristianesimo. Non c’era più alcuna rozza separazione. Il Dio trinitario aveva in Gesù Cristo attirato definitivamente a sé anche il mondo intero. Tuttavia con ciò il mondo non era annientato, l’uomo non era andato in fumo davanti al Dio eterno, il tempo non si era dissolto nell’eternità. In maniera nuova i cristiani sentivano che il cristianesimo era “una distinzione che faceva una distinzione”, come si direbbe oggi nella terapia sistemica. I cristiani non si confondevano con il mondo, ma sentivano di essere una “ekklesia”, e cioè di essere chiamati fuori dalla monotonia quotidiana. Ma proprio così operavano all’interno di questo mondo efficacemente, senza paure nell’entrare in contatto con esso.
  Questa “distinzione che faceva una distinzione” rischiò però dopo la svolta constantiniana di venir messa in pericolo. Improvvisamente l’esser cristiani non era più una provocazione già in sé. Improvvisamente i posti di guida nell’Impero vennero occupati da cristiani. Esser cristiani non era più,  parlando in termini mondani, uno svantaggio, ma un vantaggio. Procopio descrive come la donna di società riccamente vestita e ornata di gioielli durante la liturgia domenicale sta accanto alla figura scarna, consunta, del confessore della fede. Questo era anche un problema psicologico. Il cristianesimo rischiava di insabbiarsi spiritualmente. E proprio in questa epoca il celibato cominciò ad avviarsi sul suo sentiero vittorioso. Noi sappiamo oggi che il celibato aveva già radici apostoliche, ma ora esso diventava un’ancora di salvezza spirituale di una Chiesa promossa, favorita, da imperatori e re. In Egitto gli uomini avevano cominciato ad uscire dalle città e ad  affluire in massa fuori, nel deserto, presso i monaci, per lasciarsi stimolare e provocare in profondità nuovamente, circa la vita in città che era lussuriosa e monotona. E come guide di comunità si vollero presto dovunque degli uomini celibi. L’alta stima di questa forma di vita si estese poi lungo tutta la storia della Chiesa. Il Sinodo di Elvira, la Riforma gregoriana del secolo undicesimo e le riforme successive al Concilio di Trento si preoccuparono tutte di riportare alla luce l’importanza del celibato. Viceversa in epoche di debolezza della Chiesa entrò in crisi anche il celibato. All’inizio del secolo diciannovesimo nell’odierna arcidiocesi di Freiburg ci fu un “movimento anticelibatario”, appoggiato da 156 preti. Allorchè poi inaspettatamente si giunse alla rinascita della Chiesa cattolica nel secolo diciannovesimo, la campagna anticelibataria si spense da sola, risultando superflua. Anche nella crisi successiva al Concilio Vaticano II fu nuovamente il celibato a finire sotto tiro. Tuttavia proprio nei movimenti ecclesiali nuovamente fiorenti esso gode nuovamente di grande apprezzamento. Qui è di grande aiuto, dal punto di vista psicologico, il fatto che i preti stiano in un vivo contatto con laici impegnati e da questa “normalità” ottengano sempre nuovi impulsi vitali. Ma anche il fatto che sappiano di esser sostenuti dalla preghiera dei laici che pregano per loro. La distinzione tra preti e laici, ma anche il servizio reciproco degli uni per gli altri possono così venir vissuti in maniera particolarmente intensa.
  La generale critica al celibato frattanto sta nettamente calando. Tuttavia i giornalisti si divertono sempre a mettere alla prova ogni persona incaricata di un nuovo ministero ecclesiastico, ai suoi inizi, con la domanda circa il celibato. Qui poi non salta fuori se il vescovo sia a favore o contro il celibato, bensì con le sue formulazioni più o meno abili egli può mostrare se sappia già cavarsela con i mass-media oppure non ancora.
  E’ da segnalare che il padre fondatore della moderna psicologia, Sigmund Freud, di certo non un amico della Chiesa e del cristianesimo, ha potuto scorgere certi aspetti positivi nel movimento celibatario del cristianesimo degli inizi: “In epoche in cui la soddisfazione del desiderio amoroso non trovava alcun ostacolo o difficoltà, come ad esempio al tramonto delle culture antiche, l’amore divenne privo di valore, la vita divenne vuota, e ci fu bisogno di forti educazioni a reagire, per rimettere al loro giusto posto gli imprescindibili valori affettivi. In questo contesto si può affermare che la corrente ascetica del cristianesimo ha creato per l’amore valori psichici che l’antichità pagana non avrebbe mai potuto conferirgli”.
  Di contro, nella discussione sul celibato degli ultimi decenni sono stati sempre nuovamente svianti argomenti psicologici laicisti a occupare la scena. Così divenne solito udire da contemporanei poco illuminati che “rinunciare” alla sessualità non sarebbe affatto naturale. Alla base di questa affermazione c’è un concetto di natura totalmente sviante. Infatti che cosa può mai significare ciò? Forse che il Mahatma Gandhi era innaturale, lui che pur sempre aveva fatto voti corrispondenti al celibato? Forse che il Dalai Lama è innaturale? Sono forse tutti innaturali quegli uomini che, intenzionalmente o poiché in qualche maniera le cose sono andate così, vivono senza essersi sposati? Presso i greci la “natura dell’uomo” significava l’essenza di ogni uomo. Con ciò era spianata la via per la comprensione che ogni uomo ha una dignità che gli spetta in quanto uomo, una concezione che si impose universalmente solo in virtù delle religioni monoteistiche.
  Ciò che spetta ad ogni uomo per natura è dunque soprattutto la dignità umana. Mai i greci dall’elevatezzza del loro grande pensiero sarebbero pervenuti all’idea che la natura sia in questo senso solo l’aspetto corporeo dell’uomo. Tali visioni ristrette, tali riduzioni naturalistiche vengono in primo piano e si impongono solo molto più tardi e vanno conseguentemente a sfociare, come tutti sappiamo, nelle definizioni razzistiche dell’uomo, che vedevano l’uomo autentico realizzato solo in una ben determinata razza. Il concetto di razza del nazionalsocialismo ebbe la conseguenza pratica che la prosecuzione di questa razza, la procreazione di essa, aveva la massima priorità. Le madri venivano ufficialmente premiate per i loro tanti figli. Qui allora non ci si può stupire che i nazionalsocialisti nel quadro di questa consequenziale battaglia contro la Chiesa cattolica discriminassero il celibato come “innaturale” e nei cosiddetti processi contro la moralità del 1936 e 1937 tentassero di screditare ufficialmente preti e monaci come omosessuali o come sessualmente devianti in altre maniere.
  Così si può vedere che il concetto di natura nell’epoca moderna in molteplici modi è stato abusato, manipolato ideologicamente. “Innaturale” era un grido di battaglia delle dittature totalitarie contro la religione e tutto ciò che andava d’accordo con essa.
  Purtroppo non si può dire che questa tradizione culturale dell’accusa di “innaturale” oggi non continui a sopravvivere. La frase dello scrittore Bertold Brecht nell’anno 1955: “E’ ancora fecondo il grembo da cui ciò sgusciò fuori” ha sempre un’attualità non sminuita. Ovviamente nessuno parla più di razza, ma tuttavia il culto pagano del corpo celebra nel frattempo nuovamente con esultanza i suoi successi. Talvolta si ha l’impressione che attraverso il mantenimento di un corpo sano e in forma gli uomini vogliano in qualche modo assicurarsi qualcosa come la vita eterna. Il corpo diventa il simbolo della messinscena di se stessi, in una società che diventa sempre più narcisistica. La capacità di esercitare un potere di attrattiva sessuale diventa il criterio decisivo per il proprio valore sul mercato. La relazione sessuale stessa è di valore subordinato, essa fallisce se il partner non arreca più quell’ammirazione che il proprio ego richiede. Così il nuovo culto del corpo produce infelicità di milioni di persone, a tappeto, giacché tutto il progetto non può che fallire per il semplice banale fatto che ogni uomo invecchia. Tuttavia proprio perché l’uomo rimuove questo lato oscuro dei suoi sforzi indefessi ma senza senso, ecco che una forma di vita come quella del celibato, che controbatte conseguentemente gli assurdi dogmi dell’universale idolatria del corpo, è una particolare provocazione.
  Così si torna a por mano, senza realmente saperlo, al vecchio trucco dei nazisti e si discrimina il celibato come “innaturale”, cosa che sottintende il dichiarare se stessi, con le proprie relazioni sessuali sempre cangianti, sempre insoddisfatte, che ci si dichiari in tal modo indirettamente come totalmente “naturali”. Così l’attacco aggressivo contro il celibato con il termine da battaglia di “innaturale” è adatto ad elaborare le neurotiche insoddisfazioni nei confronti del proprio progetto di vita. In fondo potrebbe essere totalmente indifferente, per un uomo sano, tranquillo con se stesso, se altri uomini rinuncino alla sessualità volontariamente o costretti da malattie o situazioni simili. Ciò sarebbe in fondo propriamente soltanto affare loro. La massiccia aggressione con cui talvolta vengono portati avanti tali attacchi è però, in termini psicologici, un segno del fatto che l’aggressore stesso potrebbe avere un qualche problema con l’esperienza concreta della propria sessualità, un problema che egli però non vuole ammettere a se stesso.
  C’è però anche la variante del tutto non neurotica dell’accusa di “non naturalità” del celibato. E’ questa la versione “macho”. Ecco qua uomini che al grido di “Avanti con il sesso!” si precipitano sul mondo delle donne a valanga. Simili “padroni del creato” , che eternamente si ostinano a non diventare adulti, insistono sul fatto che se a loro viene l’impulso “naturale”, la donna deve stare a loro disposizione. Tutto ciò che si comporta diversamente da ciò, lo reputano come totalmente “innaturale”. E’ un merito, una conquista del movimento internazionale delle donne, che la “violenza nel matrimonio” nel frattempo in molte nazioni della terra sia divenuta un reato punibile legalmente. Costringere le donne al sesso con la motivazione che la propria natura adesso spinge uno a fare questo viola la dignità della donna e la sua autodeterminazione sessuale. Perciò io come psicoterapeuta dico: “Chi non può rinunciare alla sessualità, non è idoneo al matrimonio”. Se la donna – oppure l’uomo – non vuole, o a causa di una malattia o di qualcos’altro non può, allora una coppia di coniugi matura deve essere in grado di rinunciare per un certo tempo alla sessualità. Una cosa del genere i nostri “machos” immaturi solo difficilmente la possono attuare.
  La sessualità umana funziona appunto non come una pentola a pressione, in cui semplicemente con l’ausilio di una donna la pressione sessuale può venir lasciata fuoriuscire. Simili fraintendimenti della sessualità, immaturi e pieni di disprezzo della persona, che riescono a vedere la donna oramai solamente come oggetto della soddisfazione dei propri impulsi, feriscono la dignità della donna e la sua autodeterminazione sessuale, ma giocano un grande ruolo nella critica al celibato. La sessualità adulta non è mai semplicemente “naturale” in maniera grossolana. La natura dell’uomo è sempre già umanamente coltivata. In un matrimonio adulto, maturo, i partner fanno attenzione anche ai bisogni dell’altro. Ci sono diversi motivi per cui temporaneamente o durevolmente anche in un matrimonio il vivere totalmente la sessualità genitale non è possibile, sia per una malattia temporanea, o sia per un impedimento durevole. In questo senso vale il principio: chi non può rinunciare alla sessualità, non è idoneo al matrimonio. Tuttavia una partnership davvero matura non viene distrutta da questo fatto, bensì talvolta persino arricchita. Innaturale la vita celibataria lo diventa solo allorquando l’esser da solo diventa un egoismo chiuso in sé o una narcisistica messinscena di sé. Da una tale “incurvatio in seipsum” in contraddizione con la vera natura dell’uomo non è però immunizzato nemmeno l’uomo sposato.
  Così l’affronto del celibato non dovrebbe  concentrarsi soltanto sulle questioni della sessualità genitale, ma si dovrebbe invece vedere il celibato come una determinata forma di relazione che unisce una profonda relazione con Dio con una buona relazione con gli uomini affidati all’opera ministeriale del sacerdote.
  La psicanalista Eva Jäggi nel suo libro sulla “Esistenza da single” ha definito l’uomo che con consapevolezza di sè vive da solo come particolarmente importante anche per tutti gli uomini che vivono in una partnership , poiché egli renderebbe chiaro anche a questi uomini che essi non sono semplicemente funzione di una relazione, ma hanno invece un loro valore proprio. Nel caso delle relazioni che finiscono, per  qualunque motivo ciò accada,  non di rado per l’uomo che viene lasciato solo la solitudine è particolarmente pesante. Allora il sapere che ci sono uomini che hanno scelto questo stato volontariamente dà, in simili situazioni, forza e rende più coraggiosi. Per il resto, anche storicamente l’elevata stima del celibato per amore del regno dei cieli ha avuto effetti  di emancipazione per le donne, poiché esse così poterono percorrere una strada propria, non erano più socialmente riconosciute soltanto se si sottoponevano come moglie ad un marito.
  Quando per la Pontifica Accademia per la vita” nel 2003 organizzai un congresso in Vaticano sull’abuso di bambini e ragazzi da parte di preti e religiosi, si pervenne a risultati toccanti. I più noti specialisti internazionali invitati in gran parte non erano cattolici. Quando nella questione circa la valutazione dei rischi emerse il criterio del “deficit di intimità”, sorse dal pubblico la domanda se allora non fosse il celibato un problema. Allora prese la parola Bill Marshall, uno dei terapeuti del crimine più famosi su scala mondiale, noto ateo professo con molta simpatia per la Chiesa. Egli disse che questo era un fraintendimento. Egli partiva dal presupposto che un prete cattolico ha un’intima relazione con Dio. E quando uno psicoterapeuta cattolico molto esperto nella terapia sui sacerdoti osservò che per vivere il celibato si dovrebbe insegnare di più circa la sessualità ai candidati al sacerdozio, chiese la parola lo specialista di valutazione dei rischi certamente più noto internazionalmente, il canadese Karl Hanson: egli riteneva che per vivere il celibato si dovrebbe piuttosto approfondire la sua spiritualità.
  In base alla mia esperienza terapeutica io posso solamente confermare che l’inaridirsi della vita spirituale spesso è precedente alla “crisi del celibato”. Se un prete non prega più regolarmente, se egli stesso non si confessa più, se egli dunque non ha più alcuna relazione vitale con Dio, allora egli in quanto prete non è più fecondo. Gli uomini infatti notano che da questo uomo di Dio non fuoriesce più alcuna forza dello Spirito di Dio. Questo soltanto basta a condurre poi ulteriormente nel prete colpito ad uno stato di frustrazione e di insoddisfazione rispetto alla sua vocazione di sacerdote. Se poi in una simile situazione si offre una relazione esterna, allora il prete è massimamente esposto al rischio che le dighe in ogni caso già decrepite, divenute friabili, si sbriciolino definitivamente. Viceversa invece un prete vitale, che vive la sua fede in maniera convincente, davanti a sé e davanti agli altri, è un pastore d’anime fecondo, che così può anche vivere con gioia la sua attività pastorale. Importante per i sacerdoti è anche l’ascoltare le confessioni sacramentali dei fedeli, che costituiscono un contatto esistenziale con le persone. Il celibato rende il prete libero per contatti pastorali intensi. Ma questa libertà in favore delle persone il prete deve poi anche utilizzarla. Un celibato semplicemente “dietro la scrivania” oppure una vita da funzionario, che trascura il piano delle relazioni umane, in termini psicologici è più difficilmente vivibile. Un pastore d’anime zelante ha addirittura più esperienza di vita di certi uomini sposati. Non corrisponde affatto al vero quello che talvolta si sente dire, e cioè che un pastore d’anime sposato potrebbe accompagnare e guidare meglio le persone sposate. Un pastore d’anime sposato, così come uno psicoterapeuta sposato, corre sempre il rischio di rivivere inconsciamente e di far agire nel caso presente davanti a lui le esperienze del suo proprio matrimonio. Perciò egli ha bisogno, in genere, di una supervisione, per evitare rischi simili.  Invece un buon pastore d’anime ha una ricca esperienza esistenziale con tantissime vicende  matrimoniali. E da tutto ciò egli può attingere allora per certi casi più difficili. Ciò spiega la straordinaria fecondità degli scritti del papa Giovanni Paolo II sul matrimonio. Inoltre anche amicizie del tutto normali sono importanti per rimanere con i piedi per terra. Il celibato non deve diventare un monastero da eremiti. Sant’Agostino ha sempre ritenuto meritevole di raccomandazione se preti celibatari vivono insieme in una stessa casa. Questo viene oggi ripreso nuovamente in molti luoghi. Una simile comunità domestica, che è anche una comunità spirituale, rende possibile meglio la necessaria “correctio fraterna”, la critica finalizzata al bene dell’altro, che anche all’interno di un matrimonio fa sì che non ci si distanzi l’uno dall’altro. In questa maniera diventa chiaro che il celibato non significa davvero isolamento, solitudine, ma invece esser liberi per le persone e per un compito speciale. Certo, ad un prete per la sua vitalità sono negati certi campi di attività. Egli non svilupperà certe abilità, come quella di cambiare i pannolini ai bimbi piccoli, di governare e guidare con maestria le imprevedibilità dei rampolli in età di pubertà, e di mostrare l’intensità di dedizione che forgia un matrimonio. Per questo è ancor più importante che egli faccia diventare feconda la sua vitalità nell’ambito spirituale. Una volta il parroco era spesso l’unico ad aver compiuto studi universitari. La sua formazione culturale si irradiava tutt’intorno nel suo ambito di vita immediato. Preti che conducono una vita culturalmente animata, che si aprono secondo le possibilità all’arte e alla cultura e partecipano ad alto livello ai dibattiti culturali del tempo, possono vivere il celibato anche come sorgente di speciale vivacità culturale e spirituale. Così il celibato non è certamente una cosa per caratteri deboli e pallidi. Soprattutto però esso non è cosa per narcisisti, che girano psichicamente solo attorno a se stessi e si interessano solo di se stessi. Non eventuali anormalità sessuali sono il problema più frequente nella scelta e nella candidatura di nuovi sacerdoti, ma il narcisismo. Giacchè la “professione” del prete è per il narcisista una tentazione quasi invincibile. Rivestirsi di abiti da cerimonia e tenere prediche ad altre persone, prediche a cui non si può replicare, questo è per il narcisista addirittura il compimento di tutti i desideri. Tuttavia una soddisfazione autentica rimane esclusa, come nel caso di qualsiasi desiderio avido. Ma il prete deve avere una mentalità esattamente opposta. Egli si deve interessare soprattutto di  altre persone e delle loro necessità e dietro il brillare delle sue parole deve rendere visibile lo splendore di Dio, e non la sua propria fioca luce.
  Per riconoscere simili caratteristiche è meglio di tutti i test psicologici l’accurata osservazione in Seminario. E’ in grado un candidato al sacerdozio di sviluppare unfeeling, una sensibilità nei confronti delle altre persone? Prende parte, con un certo calore del cuore alla vita e alle sofferenze degli altri? Oppure non fa altro che girare attorno a se stesso e utilizza gli altri per manipolarli per il proprio vantaggio? E nel caso che gli piovano addosso delle critiche si mostra esageratamente ferito, magari persino con scoppi di “furore narcisistico” senza misura?
  Infine vogliamo aggiungere ancora una riflessione sociologica, da cui scaturiscono incisivi problemi psicologici: Il progetto delle convivenze a tempo, dellepartnership solo per un tratto di esistenza, ha nel frattempo in Europa condotto a far sì che ci siano sempre più dei cosiddetti “single”. Il più alto “valore di mercato” sussiste tra i diciotto e i ventinove anni, dopo ci si sforza di mettere in luce ancora una certa giovinezza artificiale. E infine dopo numerose relazioni naufragate si rimane soli e ci si ritrae dalla vita, delusi. In questa maniera la nostra società del benessere non produce di certo alcuna felicità. Tuttavia non ci si deve illudere che una volta le cose andassero in modo del tutto diverso. Il matrimonio, propriamente, ha avuto una elevata congiuntura solo negli ultimi cent’anni. Duecentocinquant’anni fa solo all’incirca il trenta per cento della popolazione era sposata, poiché ci si poteva sposare solo se erano dati i corrispondenti presupposti economici. I maestri e le maestre spesso, anzi perlopiù, non erano sposati, gli impiegati anche, e così via. Così in quel tempo il celibato non era affatto così estraneo, in una società in linea di massima sposata. Oggi la situazione si avvicina nuovamente alle condizioni di un tempo. Solamente che un tempo i singles prendevano parte più intensamente alla vita della comunità. Di contro il problema dei singles che oggi trascinano avanti la loro vita da soli in piccoli appartamenti di città è nel frattempo riconosciuto. Si tratta di una cultura dell’esistenza da single che sia piena di senso. Ed ecco che allora ci si rivolge nuovamente volentieri, talvolta, alle buone esperienze che i celibatari lungo i secoli hanno fatto con la loro vita da celibi per amore del regno dei cieli. Anche la Regola di S. Benedetto è, per ogni psicoterapeuta spiritualmente desto, un patrimonio, uno scrigno prezioso pieno di saggi consigli, per suggerire come l’esser da solo del monaco possa venir messo in equilibrio con il vivere in comunità. Così il rispetto per il celibato in una società divenuta piena di singles è addirittura un segno per indicare l’umanità e la liberalità di questa società. Il Mahatma Gandhi, che ha emesso egli stesso un “voto di celibato” e fino alla fine della sua vita ha vissuto senza matrimonio e interamente dedito alla sua missione, ha detto che una società che non ha simili uomini è una società povera.
  Il celibato costituisce oggi come ieri, per uomini psichicamente sani, la chance di una vita spiritualmente animata, emozionante, vivace, piena di fecondità spirituale. E per la Chiesa un prezioso dono di Dio ad essa – per il quale noi certamente dobbiamo sempre nuovamente pregare.